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Tenuta Cavalier Pepe

La filosofia del “lavorare e credere”

Un polmone verde dove si respira aria buona, si mangia bene e si beve ancora meglio! Siamo a Luogosano: un nome che questo paese porta con orgoglio. Perché vive nella convinzione che la vita si possa fermare alla conquista della serenità e della salute (fisica e mentale) che oggi tanto vale. Una preziosa ricerca che si è compiuta qui (o almeno io personalmente l’ho consumata) in maniera viscerale ed identitaria nelle esperienze che si toccano con mano. Anche nelle attività della stessa gente di Luogosano (e dintorni) e nei gesti naturali quali:
– la raccolta delle olive;
– la vendemmia;
– oggi anche la coltivazione della lavanda.
E tanto altro ancora. È un borgo dove ogni cittadino, come rivela Tenuta Cavalier Pepe nel suo logo, “crede e lavora”.

La storia vincente è radicata e “sta a dimora” soprattutto nell’impegno e nei modi di fare della famiglia Pepe, di Milena in particolare. Una stirpe di attori protagonisti di un lavoro sensibilmente chirurgico nella costruzione di una realtà che genera occasioni di crescita e divertimento e nel contempo crea vantaggi a tutto il movimento. E lo fa prima di tutto nell’assicurazione di un impiego per tante persone e poi, per noi fruitori (conterranei e non), nella garanzia di un “passatempo” vivo, che si manifesta nella proposta di un ricco e variegato “menù esperienziale irpino” legato alla produzione di ottimo vino.
Ma a monte c’è la capacità di accoglienza, vero punto di forza dell’azienda, che sfrutta a vantaggio la qualità intrinseca dei prodotti ed il modo di presentarli ed esporli come motore (e motivo) per arrivare nel mondo. Non solo nel semplice racconto, ma con l’intento di dare voce al territorio a tutto tondo.

Tutti di proprietà dalla famiglia, @tenuta_cavalier_pepe vanta 70 ettari di vigneti ed oliveti in collina, fra i 350 e i 500 metri sul livello del mare.
Si abbracciano i paesi di Sant’Angelo all’Esca, Luogosano e Taurasi. 3 dei 17 comuni della prima DOCG del sud Italia.
Terreni di origine vulcanica, con tessitura argillosa e presenza di calcare. In una zona in cui le estati sono tendenzialmente soleggiate, gli inverni freddi e l’autunno vive escursioni termiche importanti.
Un clima che fa bene all’aglianico, che matura lentamente e viene raccolto molto tardi (fra ottobre e novembre).

Ma questa cantina è forte anche sui bianchi. Un’ampia gamma di referenze “base” lascia spazio a vini che vivono oggi la menzione Riserva, ma erano stati pensati così (longevi) già da tempo. Ben prima della modifica del disciplinare del Greco di Tufo e del Fiano di Avellino. L’affinamento corretto (in legno ed in bottiglia) serve a dare vita a nettari di gusto che non solo sfidano il tempo, ma lo cavalcano nel modo giusto.
E da qui tanti prodotti buoni, a stringere un patto con il mangiare: molteplici etichette hanno la capacità di avvicinarsi a qualsiasi tipo di piatto. Perché la cantina ha ben pensato di chiudere il cerchio dell’abbinamento cibo-vino dall’aperitivo alla fine del pasto.
Due spumanti metodo Charmat: “Oro”, da uve autoctone a bacca bianca e “Oro Rosé”, da uve a bacca rossa. E da qualche tempo anche un metodo classico.
6 DOCG:
– 2 Fiano (“Refiano” e “Brancato”)
– 2 Greco di Tufo (“Nestor” e “Grancare”)
– 2 Taurasi (“Opera Mia” e la riserva “La Loggia del Cavaliere”).
Vini che dimostrano non solo il rispetto del disciplinare, ma quanto il buon lavoro, in vigna ed in cantina, si manifesti nel bicchiere.
7 DOC, tra cui il “Bianco di Bellona” (100% Coda di Volpe), il rosato “Vela Vento Vulcano” ed il “Santo Stefano”, un elegante Campi Taurasini.
Per finire, le delizia del passito “Chicco d’Oro” e la ciliegina sulla torta: “Cherry Merry”, che fonde all’aglianico gli aromi dell’amarena.

Insomma: la bontà della proposta eno-turistica, che mischia i profumi ed i sapori della terra alla voglia di vivere in maniera conviviale, sta nel cuore di una grande realtà del vino e nella ricchezza del territorio irpino.

Semplicemente Fiorentino

Un occhio al passato, uno sguardo al futuro

Parlando di aglianico (e non solo!) alla corte di Gianni Fiorentino. Un signore del vino, persona a modo, produttore sincero e gentile.

Mi accoglie con il fare dell’eleganza, che però non ti fa sentire “a distanza”. Anzi! Mi ospita in cantina con competenza, ma allo stesso modo non lesina il confronto sul mondo del vino, snocciolando criticità e soluzioni di un comparto che, al netto della qualità delle sue produzioni, ha bisogno di maggiore/migliore comunicazione (tramite mezzi e persone).

L’occasione del nostro incontro (non il primo, di certo non l’ultimo) è stata una mia scelta: per rappresentare i rosati irpini in un appuntamento estivo chiamato “Forum del Vino” ho voluto in degustazione anche una sua bottiglia: Flavia.

Serata svolta in collaborazione con il Forum dei Giovani di Teora ed ONAV Avellino, nella splendida cornice della Pinacoteca di Teora. Svolgimento:

– mezz’ora di “lezione” sui metodi di produzione dei rosati ed un assaggio tecnico a mia cura;

– mezz’ora di docenza sui trend di consumo, poi una degustazione con il “collega” Simone Feoli, delegato ONAV Benevento, ma irpino al 100%;

– assaggio e confronto su un terzo vino, in accompagnamento a formaggi e salumi del territorio.

Tornando a Flavia: questo rosato ha mostrato tratti eleganti e moderni, senza abbandonare il luogo di provenienza. Provenzale nel colore, per scelta, luminoso e vivo. Ma non per forza un sorso “estivo”, quanto più di ampio spettro o impiego (dall’aperitivo all’abbinamento cibo-vino). La sua storia parla di un grande lavoro in cantina, ma la sua realizzazione passa prima da un’idea, un progetto, una rivoluzione che inizia ben prima della produzione del mosto. E strizza l’occhio al futuro. A dimostrazione di quanto l’aglianico nella sua espressione, se vogliamo, più femminile ed oggi ricercata, possa prestarsi a vini più appetibili al consumo immediato, anche in ragione delle nuove tendenze di mercato (ed al cambiamento dello stile di vita). Gli odori parlano di finezza, raccontano di fiori e di frutta rossa non matura. In bocca la struttura è tipica, l’equilibrio unico, la persistenza voluta e raggiunta, merito prima del clima e del vitigno, poi del lavoro in vigna, poi della cantina. Perché senza il lavoro dell’uomo il territorio non vinifica da solo (al massimo parte qualche fermentazione). È così che è nato il concetto antropico di “terroir”: dall’intelligenza prima ancora che dalla mano. Se poi ci metti il sacrificio tutto è più buono. Come si fa da Fiorentino.

Ma dove lo facciamo questo vino? (il plurale non mente sulle mie origini)
A Paternopoli, nell’areale di produzione del Taurasi DOCG. Lì dove Gianni Fiorentino ha dato alla provincia di Avellino (e non solo!) un grande esempio di realtà vitivinicola che ama il territorio e fa una passo avanti nel rispetto dell’ambiente e della storia.
@fiorentinowines racconta la vita di famiglia e tramanda in “chiave odierna” un legame con la terra che si manifesta nella bellezza dello stesso luogo di vinificazione, per concezione e costruzione. È un legame “strutturale” con il contesto naturale che non fa male alla vista ed al cuore. Perché oggi la visione del domani professa il ritorno alle tradizioni e l’attenzione per l’ambiente circostante, ma anche il rispetto per la gente. Ed il motore di tutto questo sono i prodotti sani ma anche i rapporti umani.

Visitare questa realtà, toccarla con mano, vuol dire vedere con i propri occhi quello che l’Irpinia avrebbe dovuto fare già da tempo: usare legno (o pietra) per non deturpare un contorno verde impreziosito da montagne, corsi d’acqua e modi di vivere più genuini che “di una volta”.
E poi ci sono la Coda di Volpe, l’Aglianico ed il Taurasi. Tutti “fatti in casa”. A conferma di quanto Paternopoli sia zona estremamente vocata.

Assaggiare per credere!

Di Meo, fra storia e proiezione futura

Viaggio nell’identità di una cantina dalla tradizionale lungimiranza

Tra il vino territoriale di Roberto Di Meo e la sua visione del futuro c’è un intimo legame, che nasce prima dall’essere irpino e poi da una competenza smisurata che si lega alla “fame” di realizzare qualcosa… di proprio, di “nostro”.
È per questo che parlare della Di Meo (cantina) non può prescindere dalla (premetto “mia”, e del tutto personale) descrizione del suo produttore: “uomo di vino” che alla conquistata/sudata/voluta conoscenza ha sempre legato la premura verso un lavoro attento e generoso. Ed il suo successo non è, per questo, un caso!
Il curriculum di Roberto Di Meo è il suo biglietto da visita: la competenza l’ha plasmata nel confronto, nell’apertura mentale, nella grande esperienza lavorativa e nella vita di cantina, all’interno della quale il rispetto della natura e la cura del “bene da imbottigliare” sono atti doverosi ancor più che necessari.
In questa sfera sentimentale (amare ciò che si ha e ciò che si fa) nasce la voglia di manifestarsi nella qualità in ogni scelta sul vino… e non solo!
Ma sulla base di quale missione? Saper riconoscere che nelle potenzialità di una realtà vitivinicola, o più “semplicemente” di un progetto enologico, si può creare:

a. il modo di raccontare la propria identità e visione
b. il capitale (per vivere e da reinvestire nelle prossime idee).

L’attenzione (il lavorare bene), prima caratteristica di questa impresa, è un misto di meticolosità e capacità tecnica. L’elemento vino è, nella sua essenza, un prodotto della fermentazione alcolica che nella migliore espressione è vicino, e più visceralmente appartiene, al terreno ed al territorio. E saperlo rispettare/aspettare, partendo dalla vigna e poi in cantina, è questione di riguardo nei confronti prima di tutto del frutto e successivamente del processo (vinificazione, affinamento, ecc.)
Il concetto che però va oggi sotto il nome di “terroir” non si completa se all’uomo non si aggiunge la caratteristica della bontà d’animo, della passione e di una prospettiva lucida del futuro.


Calarsi in questa realtà vitivinicola mi ha fatto riconoscere l’impegno di un enologo che fa sembrare semplici le cose difficili. E passeggiando nella tenuta di Salza Irpina ho capito quanto possa essere completa la scelta di una vita aziendale che sappia accompagnare alla tradizione di famiglia l’innovazione ed un’offerta “moderna”.
Insomma, nell’atteggiamento sicuro di Roberto (mio omonimo), e nella sua eccellente preparazione, non c’è soltanto il saper fare bene il vino. C’è il permesso di vivere in libertà un’incantevole passeggiata in campagna, nella vigna, e l’aver armonizzato la vita di cantina con quella dell’arte. E nel contesto sembrare di esserne parte integrante. Il che rende la cosa ancor più curiosa, oltre che elegante.

Il tutto si riflette in pensieri felici e calici sinceri, puliti e longevi come pochi. Ancora una volta a dimostrare quanto l’Irpinia sappia offrire in termini di valore enologico ed umano, e quanto il tempo sia compagno fedele di chi lavora bene quando ha nelle mani (e nella mente) il giusto materiale.

Architettura della Cantina Riccio

Passeggiando in una Irpinia “multifunzionale”

Avete mai avuto un pensiero che si materializza? C’è stato un momento in cui quel sogno, magari desiderato, ha preso forma? Il mio è qui, in Irpinia. È nelle geometrie della Cantina Riccio.
Dal punto di vista “strutturale” tutto è lineare, pulito, perfettamente (e correttamente) pensato e successivamente arredato. Un lungo corridoio esterno fa da apripista a questa tanto desiderata visita, suggerendo il percorso ai curiosi senza ostacoli al cammino o alla vista. “Tecnica mista” fra panorama e metodo costruttivo. Radioso, come tutto il resto. L’ingresso è un manifesto del primo segno di una “brillante” ospitalità. All’interno la coerenza nei colori e nelle forme spicca in una proposta vincente di design ed architettura. Al legno si mischia una trama scura di nero, senza cupezza ma soltanto eleganza. Ogni stanza, a cui si accede tramite corridoi illuminati da led a scomparsa o ad incasso, è un passo nella storia di questa cantina nuova ma che ha già qualcosa di importante da raccontare: prima il buon nome dei proprietari, poi la voglia di urlare a chi non la conosce che nella natura dell’Irpinia (e dell’Irpinio) c’è anche

  1. cultura
  2. voglia di crescere

Forse in questo territorio un po’ ruvido, ma ricco, ci sono tanti posti/porti giusti per concepire realtà potenzialmente vincenti. Alcuni (oggi i più “famosi”) ne sono non solo esempio concreto, ma veri portabandiera. Non è, però, sempre scontato realizzare le cose in un certo modo, con fare attento. Anche perché si deve fondere alla tradizione l’essere belli e funzionali. Ma non solo! C’è da considerare uno sforzo economico, in questo caso, senza eguali.
E questo esclusivamente per parlare delle caratteristiche “fisiche” di una realtà vitivinicola “non x” (dove “non x” = non così comune o convenzionale). Se volessimo poi considerare i valori umani, non solo utili ma necessari, entreremmo nella sfera complessa del saper fare una giusta proposta in tema di enoturismo. Non c’è completezza dell’offerta senza capacità di accoglienza, competenza nelle “narrazioni di cantina”, conoscenza diretta dei prodotti e dei processi e… tutto il resto!


Qui ho visto un ambiente curato e l’attenzione al dettaglio. Ho voluto stringere la mano a chi ha messo a dimora, come una pianta nel terreno, un luogo di-vino e di conservazione del patrimonio paesaggistico e delle tradizioni culinarie. Ma non solo: il tempo che scorre lento, nelle Cantine Riccio, è scandito dalle possibilità di relax e divertimento.
Io mi sono fermato, sfortunatamente ma solo “per ora”, alla cantina ed alla ristorazione. Ed ho vissuto un’esperienza a 360 gradi di assaggio e degustazione. Nella rivisitazione dei piatti del territorio ho trovato tecnica e gusto, oltre ad una presentazione attenta con tratti di lusso.
Non ho provato l’esperienza della piscina, del campo da tennis, della palestra, della spa e del pernottamento. Ma la missione di questo racconto è far sapere che tutto questo si concentra in un posto solo. Ed in maniera davvero esclusiva.
Era da molto che desideravo andarci ed ora… desidero tornarci!